martes, 24 de marzo de 2020

ROMÁNICAS IV, Ardosía


















        Ardosía
 
Costruire, abitare, pensare
  M. Heidegger

Finire in mare. Ciò cha a lui arriva è ciò che non fu condiviso. Poco deve rimanere
dell’impeto travolgente degli inizi, poco di quello straripante fare incetta che spreca il
suo affinché.
Lasciare la vita con la sua portata esausta. Svuotare il mare.
E morire con tutti i baci dati, dissolti nell’acqua.
Che non rimane niente nel carcere meschino di ciò che è mio.
Ciò che fui. Quella che sono.
La donna tana che dava le spalle al mare addormentò la sua vertigine, affrontò ad occhi
aperti l’infinitezza. Imparò a costruire.
Faccia a faccia col mare, dietro la sua orma; ricordando un blu che sfugge allo sguardo.
Quando i grigi comandano, quando gli ocra tracciano un sentiero di scorie, di bruco che
non sa ancora nulla del suo destino alato.
Più che Bellezza è strappo che prende il volo. Più che strappo è acqua che restituisce
alla terra il suo fango di Bellezza. Più che acqua è vertigine di Bellezza e strappo e
fango, è dolore che disegna un’indescrivibile mattina, quest’ampiezza di mandorli,
questo copriletto bianco che si apre in schiuma all’infinito
Porto nelle palpebre quel respirare.
Il mare respira, profondo,
liquido respira nello sguardo.
Quando la realtà svanisce sotto un pennello d’acqua, non dubitare di ciò che trattiene la
tua memoria, non pensare di non poter più abitare il nitore del cielo, la pennellata di blu
con cui abbaglia il mare che non è mai solo mare: tutto vive nei tuoi occhi. Tua è la luce
 con cui apri il giorno, la carezza delle palpebre, l’invenzione del linguaggio.

Ogni volta che nasco, nasco dal mare. O è il mare che torna ad abitarmi.
Anche se lì la roccia ci rammenta il testa o croce della vita; il bacio della schiuma. Il
dolersi del suo riccio.
Così io, la mia rètina ricopre di tenera neve l’ombra di altri giorni. Arsa da un sole a
misura della sete che proprio ieri si rifugiava dietro i vetri e mordeva mille grigi.

Mordere mare,
ardere.
Amare.

E ho amato. Ho amato il mare, questo debito di anni. Amore e mare uniti in quella
sensazione unica in cui il petto allarga il suo perimetro fino a contenere il pianeta
nascosto del me stesso. Perché non si può contemplare il mare, tanta ampiezza sonora,
senza sentirsi accompagnati, parte di qualcosa molto grande che avvolge e tranquillizza.
Che arde e impulsa.
Il naufrago che sono sogna solo tempesta,
scogli, fame e sale. E sogna nel naufragio.
Quando la luce si apre ed è implacabile il giorno,
il sole asciuga i corpi,
ma il mare continua.
Che crollino le muraglie. Che cristallizzi il sale del pensiero. Il naufrago è ormai isola,
quella che accoglie e protegge.
Quella che pronuncia con ali sulle labbra.

Traducción: Paola Laskaris

                            Ardosía

                Construir, habitar, pensar.

                Martin Heidegger


 Dar en el mar. Lo que a él le llega es aquello que no fue compartido. Poco debe quedar del ímpetu arrollador de los inicios, poco de aquel acopio desbordado que derrocha su para qué.

Dejar la vida con el caudal exhausto. Dejar vacío el mar. 

Y morir con todos los besos dados, disueltos en el agua. Que no se quede nada en la cárcel mezquina de lo mío. 

Lo que fui. La que soy.

La mujer madriguera que daba la espalda al mar adormeció su vértigo, enfrentó a ojos alzados la infinitud. Aprendió a construir.

De cara al mar, tras su huella; recordando un azul que a veces se va de la mirada. Cuando los grises mandan, cuando los ocres trazan un sendero de escoria, de oruga que nada sabe aún de su destino alado.

Más que Belleza es desgarro que cobra altura. Más que desgarro es agua que devuelve a la tierra su limo de Belleza. Más que agua es vértigo de Belleza y desgarro y limo, es dolor dibujando una mañana indescriptible, esta amplitud de almendros, este cobertor blanco que se abre en espuma al infinito

Llevo bajo los párpados esa respiración.
Alienta el mar, profunda,
líquidamente alienta en la mirada.

Cuando la realidad se desdibuja bajo un pincel de agua, no dudes de lo que conserva tu memoria, no pienses que no volverás a habitar la nitidez del cielo, el brochazo de azules con que deslumbra el mar que nunca es solo mar: todo vive en tus ojos. Tuya es la luz con que abres el día, la caricia en los párpados, la invención del lenguaje.


Siempre que nazco, nazco del mar. O es el mar el que vuelve a habitarme.

Aunque la roca ahí nos recuerde el caraycruz de la vida; el beso de la espuma. El doler de su erizo.
Así yo, mi retina cubre de nieve tierna la sombra de otros días. 

Ardida por un sol a la medida de la  sed que ayer mismo se amparaba tras los cristales y mordía mil grises.

Morder mar,
arder.
Amar.


Y amé. Amé el mar, esa deuda de años. Amor y mar unidos en esa sensación única en la que el pecho ensancha su perímetro hasta abarcar el planeta escondido del yomismo.

Porque no puede contemplarse el mar, tanta amplitud sonora, sin sentirse acompañado, parte de algo muy grande que envuelve y tranquiliza. Que enardece e impulsa.

                        El náufrago que soy solo sueña tormenta,
                        escollos, hambre y sal. Y sueña en el naufragio.
                        Cuando la luz se abre y es implacable el día, 
                        el sol seca los cuerpos, 
                        pero el mar continúa.

Caigan las murallas. Cristalice la sal del pensamiento. El náufrago ya es isla, la que acoge y ampara.

La que pronuncia con alas en los labios.



No hay comentarios:

Publicar un comentario